Monthly Archives: July 2012

Tintin vol. 1

Tintin è uno di quei ricordi d’infanzia che non ti togli più di dosso. Pur senza identificare tutti i personaggi protagonisti dell’epopea, come scordare la famosa canzoncina (“Tintin, Tintin, ricoprimi di baci / Tintin, Tintin, assaggia e poi mi dici”), il baffo pacioccone, le ragazze a cui non ti riusciva di spostare lo sguardo dagli occhi (hai scoperto solo poi che quella roba lì non si chiama occhi)… Orpo, dalla regia mi comunicano che ho fatto un po’ di confusione. Scusa Smaila, amici come prima, ochei?
Ripartiamo.
Meno di un anno fa sbavavo come una lumaca al pensiero del film di Tintin (Le avventure di Tintin: il segreto dell’unicorno) scritto a sei mani da una sorta di Trinità Pagana (Wright, Moffat e Cornish). Un anno dopo quel film l’ho visto (bombissima) e mi sembra giunto il momento di fare una bella sguazzata nella fonte di cotanta meraviglia. E quindi, via, pronti a reperire i primi volumi della saga nella ristampa da collezione della Rizzoli Lizard (vedi anche alla voce: lanciare dei segnali inequivocabili di interesse alla signora in Polenta e Computer in vista del compleanno).
Grandi pro dell’edizione: brossura, buona qualità della stampa, della carta e della rilegatura, il tutto ad un prezzo abbastanza ragionevole (oh, se non si è capito, a me li hanno regalati, quindi il prezzo non può essere più ragionevole di così), l’impostazione grafica di queste nuove copertine mi piace così tanto da farmi desiderare di abbracciare il grafico responsabile (sarebbe meglio se fosse una grafica [maliziosetti, niente n nella parola grafica]).
Contro: stai facendo un’edizione per i collezionisti e non metti neanche dentro le copertine originali? Qualche bozzetto, qualche materiale preparatorio, qualche prova grafica, un po’ di apparato redazionale di approfondimento? Niente niente niente? Vabbé, sopportiamo.
Il volume comprende le prime due avventure del reporter belga e del suo cane Milou: “Tintin nel paese dei Soviet” e “Tintin in Congo”.
Svisceriamo? Svisceriamo.

Tintin nel paese dei Soviet
È la prima storia del reporter dal ciuffo ribelle e i difetti non mancano. I disegni son piuttosto approssimativi (nelle prime tavole Tintin si riconosce a stento) e la storia è tenuta su con lo sputo (e sono generoso). Fresco di esperienze fumettistiche sovietiche, non mi sono stupito nel trovarmi di fronte ad una storia furiosamente anticomunista (tutti i soviet sono spie, traditori, militari contro Tintin sempre pronti a fargli imboscate), quanto piuttosto alla serie rocambolesca di avventure in cui riesce a cacciarsi il giovane reporter. Non passa pagina in cui Tintin non sia su un veicolo diverso o non sia rapito e/o in fuga e/o vittima di un attentato. Uno dei momenti migliori e decisamente il più pericoloso degli attentati è quello effettuato con la temibilissima buccia di banana, che sicuramente è una minaccia per l’incolumità dell’osso del collo di un capitalista (anche se quando si rivolta contro all’attentatore sovietico, si risolve in una botta di culo [ma non quella che fa vincere al superenalotto]).
I momenti sinceramente drammatici (le elezioni per alzata di mano – e chi non vota comunista viene sparato) si alternano a scenette grottesche (la recita per i socialisti inglesi fatta da 2 attori di numero dentro una fabbrica, assoldati per fare rumore e fingere produttività).
C’è pure il momento McGyver (Tintin che da un cumulo di rifiuti costruisce un auto), il momento in cui trova in cella accidentalmente uno scafandro (altro momento un po’ McGyver), il momento horror alla Scooby Doo (quando si traveste da fantasma per spaventare i bolscevici).
In sostanza, non c’è una vera e propria storia, ma un caleidoscopio di situazioni assurde, improbabili e avventurose.

Tintin in Congo
Il prode reporter, accompagnato dal fido Milou (capito il calembour? Fido come nome di cane, ma anche perché fidato! Che mattacchione so essere!) viene inviato (ancora calembour! Sinonimo di giornalista e participio passato di inviare. Magggico!) in Congo (Congo nel senso di… ehm, no, Congo quello vuol dire).
Se uno fa una ricerca in rete relativa alla storia, si troverà di fronte un sacco di accuse di una visione molto razzista da parte di Hergé della popolazione Congolese. Diciamo che il politically correct non era proprio in voga negli anni in cui la storia è stata scritta (la tribù dei Babàalrum? SRSLY? Marisa Laurito si starà rivoltando nella tomba [lo so che è ancora viva] assieme al suo babà che è una cosa seria).
Comunque: qui, a differenza dell’episodio precedente, si riesce ad intravedere una sorta di trama (e i disegni sono a colori! E il tratto migliora [ringraziando Iddio]!), seppur piuttosto esile. Tintin va in Congo, fa le cose che fanno gli abitanti del Congo (tipo fare un foro sulla corazza di un rinoceronte, imbottirlo di esplosivo per farlo ESPLODERE!!!), diventa maestro part-time più precario di un insegnante in Italia nel 2012 (un missionario gli chiede per favore di fare il maestro per una classe e lui parte subito interrogando [supplenti bastardi!] e va a finire con un leopardo che mangia un cancellino [che tanto in Africa non hanno problemi nel reperire il materiale didattico]). Risolve un attacco di un serpente facendogli mangiare la coda (Uroboro anyone? Ma vuoi vedere che i Turbonegro stavano citando Tintin nella copertina di “Scandinavian Leather”?) e usa una calamita per deviare un attacco a base di frecce, giusto in tempo per scoprire che dietro c’è tutta una macchinazione di Al Capone per ucciderlo. E insomma, non fa neanche in tempo ad andarsene che l’intera Africa sta parlando di lui.

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Uomini che odiano le donne

OK, ora vanno di moda gli ebook e io mi adeguo. Ho deciso di sperimentare l’esperienza di lettura digitale con un volume snello. E invece no. Mattonazzo thrilleroso da un miliardo di pagine. Ma il vantaggio di leggere praticamente ovunque (cellulare, tablet, pc) ha dato una decisa accelerata alla mia abituale velocità di lettura, permettendomi di arrivare a leggere la parola fine (metaforicamente; altrimenti mi bastava andare all’ultima pagina) in tempi umani. Giudizio sintetico: l’ebook è un formato ampiamente promosso.
Ma non siamo certo qui riuniti per parlare di formati (anche se, volendo, nessuno me lo potrebbe impedire). È giunto il momento di parlare di questo “Uomini che odiano le donne” (a me sarebbe piaciuto storpiare mariadefilippianamente il titolo in “Amici che odiano uomini e donne”).
Io l’ho sempre detto che un thriller deve thrillerare: se un thriller non thrillera, non assolve alla sua funzione fondamentale, non adempie il suo nomen omen.
Nel caso di specie, quello che mi ha tenuto incollato alle pagine (metaforicamente; altrimenti mi bastava mettere una goccia di attak sul tablet/smartphone/pc, ma sai quanti dispositivi rovinati) per tutto il tempo era la costante aspettativa che finalmente la trama decollasse. Ovviamente, risolto il mistero principale (e restava ancora un sesto di romanzo!), ogni speranza è svanita. Ma ormai, volevo finire.
Tutta la storia ruota attorno alla misteriosa sparizione di Harriet Venger. Non è che io sia una persona particolarmente brillante (metafora; la mia genialità è risaputa e indiscussa), però avevo capito dove si andava a parare nel momento stesso in cui il mistero è stato presentato.
Stilisticamente il libro mi è sembrato eccessivamente descrittivo e ridondante in parti assolutamente ininfluenti (e fin troppo sbrigativo nelle parti importanti).
Comunque, nel complesso, l’intera storia si riesce a leggere senza grossi problemi.
Come dire: una pedata sui testicoli è decisamente peggio, ma si trova facilmente anche di meglio.
Per la cronaca: ho deciso che non leggerò gli altri volumi della trilogia.
Nota a margine: il Mac super potentissimo che si vuole comprare Lisbeth ha delle caratteristiche che oggi fanno veramente tenerezza.

Superman Red Son

Superman non mi è mai stato particolarmente simpatico, né ha mai attirato la mia attenzione. Voglio dire, è il classico perfettino, il secchione che a scuola corregge la maestra (e il fatto che a me sia sporadicamente successo in passato è diverso, io sono giustificabile, io sono meglio, io non giro con una maglia con le mie iniziali), è come Topolino, come Pegasus, come Quo (ma pure Qui e Qua non scherzano), come Jack di Lost.
Da queste parti riscuotono simpatie i personaggi tormentati, che non sanno mai qual è la cosa giusta da fare, che sono impacciati o, al contrario, sono sicurissimi delle proprie azioni per poi andare a sbagliare irreparabilmente. Quindi, si sa, che l’amore va tutto a Pippo, Phoenix (ma anche Sirio e/o Cristal; Andromeda no, quello sta sulle balle a tutti ché è troppo poco virile), Paperino (e ancor di più Paperoga), Hugo (anche se dalle parti di Lost, un giretto su… ehm, un giretto con Kate non ci starebbe neanche male [nota per la signora in “Polenta e Computer”: lo scopo del giro è esclusivamente per provare un furgoncino hippie su un isola con gli orsi polari, giuro.]).
Casualmente sono venuto a conoscenza di questo Superman Red Son e mi sono dedicato alla raccolta di qualche informazione in più,  mentre la mia mente malata già si immaginava una realtà in cui Superman fosse stato adottato da Red Ronnie. La storia è ancor più sconvolgente: una realtà alternativa che vede Kal-el arrivare sulla Terra con poche ore di ritardo (Trenitalia protagonista indirettamente anche dei comics americani) e cade in una fattoria ucraina anziché nel Kentucky.
In pochi anni, invece che campione del turbocapitalismo, diventa l’uomo fidato di Stalin e vessillo del comunismo. Gli uomini sono tutti uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Ecco, un uomo invincibile, volante e che spara raggi dagli occhi è decisamente più uguale degli altri. Ma siccome “ognuno secondo le sue possibilità e ad ognuno secondo le sue necessità”, al buon Superman non tocca nulla se non salvare tutti da incidenti catastrofici, alcuni dei quali causati da quel simpaticone di Lex Luthor. Lex è un simpatico individuo che, dopo aver sposato Lois Lane, gioca a scacchi con i robot che costruisce (e si bulla di vincere) fino a quando non trova la sua ragion d’essere nell’eliminazione di Superman.
Nel frattempo, Stalin ci lascia le penne e l’uomo d’acciaio (stahl in russo vuol dire acciaio, sapevatelo) viene sostituito dal vero Uomo d’Acciaio (Superman è noto anche come l’Uomo d’Acciaio).
Lo strapotere di Superman, che diventa una sorta di Grande Fratello che protegge e sorveglia l’intero pianeta, viene minato solo da dei Batman sovietici, che sono molto simili a V (vedi V for Vendetta). Molto simile a quanto descritto nel fumetto di Alan Moore è anche la diffusione di una pletora (Gesù, son dieci anni che non vedevo l’ora di usare ‘sta parola) di Batman anarchici.
C’è pure Wonder Woman, che flirta quanto più possibile con Superman. Ma l’Uomo d’Acciaio è interamente d’acciaio, pure il suo cuore (ma non il suo pube, a differenza di quanto vorrebbe WW).
La valutazione complessiva di questo fumetto non può che essere ancorata a due grossi problemii.
Primo, iniziando a leggere le avventure di un supereroe da un what if, si perde tutta la marea di citazioni di cui tutta la storia è infarcita.
Secondo, la storia dei Batman sovietici (la parte migliore di questo “Red Son”) ricorda troppo V for Vendetta. Il confronto è inevitabile e si sa che chiunque si confronta con Alan Moore ne esce con le ossa rotte.
In sostanza, consigliatissimo ai fan di Superman e a chi non ha ancora letto niente di Alan Moore.
Ma se uno non ha ancora letto Alan Moore, meglio che si dedichi alle opere del genio stramboide, piuttosto che impegolarsi con questo volume.

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